mercoledì 30 ottobre 2013

[MY TWO CENTS REVIEW] Batman: Arkham Origins




Batman, dopo il ritorno al cinema nel 2005, 2008 e 2012, è diventato il beniamino di grandi e piccini. Al punto da vivere una seconda (o terza) giovinezza, dopo il calcio in culo assestato dai film con Val Kilmer e George "Lavazza" Clooney


Ma dopotutto, sono passati quasi 20 anni e come si suol dire, il tempo guarisce quasi ogni ferita. Ma per quanto riguarda il mondo dei giochini elettronici, Rocksteady Studios, coi primi due capitoli della serie Arkham (di cui non vi ammorberò con riassunti delle puntate precedenti), aveva ibridato l'atmosfera gotica dei seminali film di Tim Burton con un certo stile narrativo preso di peso dalla straordinaria serie animata di Batman degli anni '90 (quella con Cristina D'avena che cantava a squarciagola), partorendo prima un gioco d'avventura con una perfetta struttura alla Metroidvania (Asylum) e poi un Free Roaming Game assolutamente straordinario (City), quasi una ripartenza piuttosto che un sequel diretto del predecessore, capace di cagare in testa a tutti gli Assassin's Creed messi il fila indiana.


E ora, dopo le sconvolgenti rivelazioni del finale di Arkham City, il pubblico non vedeva l'ora di tornare a vestire i panni del pipistrello per la terza volta, coscenti del fatto che nulla sarebbe stato come prima in quel di Gotham (ma proprio nulla). E invece, nada: nel senso che non solo i ragazzi di Rocksteady sono missing in action (al loro posto arrivano gli sviluppatori di ... che hanno fatto questi?), ma per Batman: Arkham Origins si è addirittura optato per la facile strada del prequel, che narra un Cavaliere Oscuro più o meno inesperto combattere il team di villain sfigati, molti dei quali assolutamente sconosciuti anche per chi legge da vent'anni il fumetto come il sottoscritto (ora, siate sinceri, chi diamine li ha mai sentiti "Copperhead" o "Electrocutioner"?). 


E il gioco? Nella più classica tradizione del "ci piace vincere facile", WB Montreal ha furbescamente copia incollato le meccaniche perfette del predecessore, con la medesima (nel senso che è proprio la stessa di Arkham City, con tanto di Wonder Tower) porzione di città innevata tutta da esplorare, con in più un'altra frazione di metropoli inedita ed una notevole quantità di sub quest da affrontare. E Batman svolazza sempre come un acquilone, picchia i malviventi (col solito impeccabile e godurioso combat system), raccoglie informazioni, facendo ogni tanto capolino alla Batcaverna, più bella a vedersi che altro. 


E si, ci sono anche i millemila "trofei" dell'Enigmista da raccogliere. 


Insomma, definire Batman: Arkham Origins un vero e proprio seguito di Arkham City è quasi del tutto errato. Nel senso che il titolo WB è talmente simile al precedessore come meccaniche, stile e narrazione che sarebbe più onesto parlare di add-on (anzi no, le differenze ci sono, ma si tratta più che altro di piccoli passi indietro dal punto di vista grafico).


Sarebbe come dire che Cecilia e' la piu' gnocca tra le due sorelle Rodriguez.





La speranza è che il VERO terzo capitolo della serie sia segretamente in lavorazione in quel di Rocksteady, magari per la prossima generazione di console. 


PS: se avete più di vent'anni e vi piaceva la serie animata, vogliatevi bene e settate la lingua inglese parlata dal menù iniziale. Eviterete di incappare in uno spoiler abbastanza grosso dopo soli 3 minuti di gioco, dovuto al sempre preciso e professionale doppiaggio in lingua italiana. A meno che non siate diventati improvvisamente sordi o quasi ciechi. Come un pipistrello che si e' toccato troppo le vergogne guardando il video di Belen.

domenica 20 ottobre 2013

Come un Tuono


Come quasi ogni sera, per recarmi al lavoro percorro in bicicletta il camminamento lungo le mura della mia città, un tratto di strada alberato leggermente in pendenza, piastrellato, perfetto per le due ruote.
Ad un tratto, un bimbo che si trovava pochi metri più avanti (anch'egli bici munito) ed accompagnato da quelle che ipoteticamente potevano essere la madre e la zia, mi nota. Lui, capelli con una cresta biondiccia leggermente accentuata, in quella fascia d'età (8/9 anni, credo) troppo grande per definirlo "bel bimbetto", ma neanche troppo piccolo da gridargli "stronzetto".
Costui, una volta notato il mio mezzo e l'andazzo sostenuto, coglie la palla al balzo e, lasciandosi alle spalle le due genitrici (o chi per lui), ingaggia senza pensarci due volte con il sottoscritto una furiosa corsa per il traguardo (immaginario, suppongo).
Il bimbetto accelera clamorosamente, tant'è che mi sorpassa rischiando di travolgere dopo pochi secondi dall'inizio della corsa, una fila di tre signorine che camminavano l'una di fianco all'altra.
Io mi pongo al lato destro, molto vicino agli arbusti, assicurandomi così una traiettoria priva di ostacoli. Ad un tratto, però, vedendo che nonostante i ripetuti gesti di sfida che mi lanciava io non raccolgo l'affronto, il Ryan Gosling in miniatura sterza di colpo frenando di botto, ponendosi così orizzontalmente e lasciando una vistosa striscia di gomma sulla pavimentazione.
Ovviamente, ormai immobile e costernato dal fatto che non abbia reagito come il "fifone" della situazione, l'unica cosa che può fare il bulletto è lanciarmi un'ultima, temibile, occhiata, mentre quasi a passo d'uomo mi allontano all'orizzonte.

Fine? No, c'è la morale.

Questa storia, mi fa arrivare ad una semplice conclusione: che codesto centauro in miniatura un giorno poserà la bici a favore di uno scooter modificato, per poi passare ad una moto 125 con cui andrà a tutta birra in superstrada, per poi optare definitivamente per una macchinona dai colori improponibili, di quelle coi led luminosi alla Fast & Furious, che sarà un bel giorno attratta magneticamente da un platano, alle 6:15 di mattina, al rientro dalla discoteca. O peggio, Dio non voglia, magari investendo prima un innocente all'uscita da scuola, dalla palestra o da casa.

No, con questo non sto certo augurando la morte di nessuno.
Credo solo che stasera io stato accidentalmente la prima "vittima" di quello che un giorno sarà un vero e proprio pirata della strada, nell'anima e nello spirito prima ancora che nell'acceleratore.

E Dio ce ne scampi.

venerdì 18 ottobre 2013

Craven Road 7: Il fan film che mai fu

Chi mi conosce abbastanza bene sa che sono un lettore di Dylan Dog. E che 5 mesi fa ho deciso di interrompere, dopo oltre 100 numeri di onorato collezionismo, il mio rapporto col personaggio. Ma qualcuno in quel di Bonelli deve aver pensato: "Oh, Pavo non compra piu' Dylan. Dobbiamo far si che ricominci!". Difatti, una manciata di giorni dopo il mio lascito ufficiale, Roberto Recchioni (quello di Mater Morbi per capirci) ha preso in mano il personaggio e tutte le sue testate, promettendo un ritorno alla tradizione ma con innovazione.

Non vi parlerò del numero 325 (l'ho già fatto dopotutto) che ormai è già "roba vecchia", bensì ne approfitto per ripubblicare, a tre anni di distanza, un promo, anzi, un omaggio realizzato dal sottoscritto e dal mio "amico regista" Alberto per il celebre personaggio dei fumetti creato da Tiziano Sclavi, prologo ad un presunto corto ispirato all'Indagatore dell'Incubo (che non vide mai la luce).


Ah, la canzone è "Maybe Not" di Cat Power.

domenica 13 ottobre 2013

Il retrobottega misterioso


Mi sveglio nel tardo pomeriggio dopo due, misere, ore di sonno. La sensazione e' sempre quella di avere 39 febbre (ma son coglione io che insisto nel dormire dopo pranzo, ma non posso farne a meno ultimamente). Mentre mi lavo i denti, la mia Lei mi squilla. E' sotto casa, che mi aspetta. Sputo nervosamente il dentrifico misto all'acido muriatico del dopo sonno e mi fiondo per strada. L'ora e' quella giusta, il sole inizia a calare. Un flebile venticello mi distrae dal rincoglionimento post-dormita, ma non basta.
"Facciamo caffe' al volo?". La mia Lei annuisce. Dopotutto sa, quasi piu' di me, quanto un sonnellino pomeridiano possa devastare il corpo e lo spirito.
Giungiamo quindi al bar vicino casa, un posto abbastanza sfigato e lontano quanto basta dalla strada principale, dettaglio questo che e' costato tre (o quattro) fallimentari cambi di gestione. Ma poco importa. Il locale è ora caratterizzato da un abbondante uso di bianco, da pochi pezzi d’arredo e qualche sgabello, anche fuori. Mentre sorseggio avidamente la mia dose di caffeina, rigorosamente zuccherata x2, noto un dettaglio che rimanda alla memoria la mia adolescenza, o addirittura ad un periodo precedente. Il "retrobottega".
Ma prima, facciamo un salto nel passato. Anni '90, l'inizio. Erano le estati de "al pomeriggio ci vediamo al campetto". Le estati delle uscite con gli amichetti sotto il cortiletto del proprio condominio. Dei primi discorsi sul senso della vita e dell'amore, magari leccando avidamente un ghiacciolo al limone (segaioli mentali si, ma anche sudati). Ma era anche il periodo in cui le sale giochi erano un fiorire di elementi poco raccomandabili, aria irrespirabile e coin-op. Tanti, tantissimi, coin-op. Tuttavia, i cabinati giusti potevi ritrovarli ovunque, anche sotto casa. E appunto, la mia fortuna era avere non uno, ma bensì tre cassoni d'antologia (più un Flipper) proprio al baretto sotto casa, nascosti in uno stanzino rettangolare discretamente buio, situato proprio dietro al bancone.
Il "retrobottega" per l'appunto.
Inutile citarne i titoli, non li ricordereste (anzi, invece lo faccio: Knights of the Round, Samurai Shodown e, ovviamente, sua maestà Street Fighter II). Praticamente, la Santissima Trinità videoludica. Ed ogni pomeriggio, era un tintinnio di monete, 200 lire in tasca e grida di ludogodimento. Anno 2000 e 13. Il tempo è trascorso, i capelli son caduti (divenendo barbaccia incolta) e le Lire sono diventate cenere. Ma quel "retrobottega" è ancora li, poco illuminato, nonostante il bianco ne indori le fattezze. Seduta stante non ho osato avvicinarmici, al di fuori di una fugace occhiata. Non ho osato varcare la soglia della stanza, quasi come se una barriera invisibile mi precludesse l'accesso. Il perché è presto detto: dei cabinati, sicuramente, non vi è più traccia. Le sale giochi sono morte, è un dato di fatto, e i coin-op sono diventati pezzi da museo (al di fuori di qualche cassone contenente 40 titoli emulati più o meno decentemente, magari avvistabili in qualche localaccio del lungomare).
Ma il mio terrore era che, una volta entrato in quello stanzone, mi sarei ritrovato in ginocchio ad imprecare osservando le odiose macchinette mangiasoldi del video poker e le slot machine, vero e proprio cancro di questa italietta tutta Gratta & Vinci e Superenalotto, capaci di mandare sul lastrico l'imprenditore tanto quanto il pensionato. Come spesso si dice in questi casi: occhio non vede, cuore (di videogiocatore) non duole. Quindi, finito il caffè, la mano afferra il portafogli per pagare il tutto. Senza pensare che, solo pochi anni addietro, la sola richiesta era perennemente quella di "spicciare le 5.000 Lire in monetine da 200".
Tempo canaglia.
Uscito dal bar, il sole è sempre più basso e, mano nella mano con la mia Lei, ci appropinquiamo a procacciarci del cibo. Ma la sensazione è quella d'aver lasciato sbadatamente qualcosa nel bar, di aver perduto (di nuovo) un pezzo d'infanzia. Quell'infanzia spensierata fatta di cazzeggio imperturbabile, monetine e tanto, tanto divertimento.
Che sia anche solo schiaffeggiare i cavalieri di Re Artù o picchiare un karateca rosso o bianco.
Andiamo a mangiarci su, va.

lunedì 7 ottobre 2013

[MY TWO CENTS REVIEW] Grand Theft Auto 5


Ricordo ancora un mio vecchio collega del settore (grasso e simpatico all'epoca, oggi mi si dice sia diventato un fighetto), che sulle pagine dell'allora prestigiosa rivista "Videogiochi", nell'angolo della posta chiedeva se "cazzeggiare a Vice City fosse ancora considerato videogiocare". Era il 2002. Sono passati 11 anni. Undici. E nononostante il progresso tecnologico abbia fatto passi da Tirannosauro superdotato, siamo ancora qui, a chiederci se investire vecchiette o caricare (e successivamente uccidere) prostitute a Los Santos sia videogioco in senso stretto. Forse, semplicemente, non esiste risposta a questa domanda: esiste solo lo zilione di cose da:

fare
vedere
toccare
provare
ammazzare
prendere
ammirare
distruggere 
rubare
provocare
scalare
sparare
lodare
investire
corrompere
ascoltare
urtare
scopare
perculare
devastare
affogare
lanciare
storpiare
gambizzare 
spaccare
smembrare
comprare 
mangiare
visitare

Ma il gioco? Rockstar, come da tradizione, riempie di attivita' collaterali il suo mega mini mondo, ma con una struttura da third person shooter che sa di vecchio, ed un modello di guida arcade che piu' arcade non si puo' (il tutto, triplicato per tre personaggi: il nigga, l'uomo di classe e il pazzoide). E poi c'e' il concetto di "volgarita'", che a Los Santos assume una nuova concezione (il "fuck" sostituisce il "ciao"). Ma al di fuori di questo puzzonasismo una roba del genere non si era mai vista, contenutisticamente parlando. E mai si vedrà per i prossimi 10 anni, ne in questa ne tantomeno nella prossima generazione.

Perché il concetto di "libertà videoludica" assume in GTA 5 un sapore realmente inedito; un piccolo passo per il videogiocatore, un grande passo per il videogioco. Sempre che cazzeggiare sia videogiocare, chiaro.